Food for Minds/selectedbooks by qualified readers
E' una selezione di libri di
qualità pensata per fornire suggerimenti ai tavoli degli architetti.
Le recensioni sono a cura di lettori che a uno sguardo serio e penetrante
accoppiano una consapevole modalità di scrittura.
INDEX All reviews
Il seminario condotto da Antonino Saggio ha inteso fornire uno spaccato
critico su alcuni testi recenti di Teoria dell'architettura contemporanea e
allo stesso aprire la riflessione sul rapporto tra teoria e pratica progettuale
all'interno dell'attività dei partecipanti, A partire dal testo analizzato e
commentato in ciascun articolo è presente un progetto architettonico che serve
ad esemplificare, seppure parzialmente, alcuni nessi tra elaborazione teorica
e ricerca progettuale di ciascun dottorando di ricerca.
Dottorato di Ricerca in
Composizione Architettonica (Teoria dell'architettura)
Facoltà di Architettura Ludovico Quaroni
– La Sapienza Roma
IL RITORNO ALLA TERRA
di Leone Spita
Paul Shepheard, What is Architecture? An Essay on Landscapes, Building, and Machines, MIT Press, London 1994.
E’ possibile far parlare di
architettura un gruppo di netturbini che al mattino presto raccolgono i rifiuti
per la strada? Secondo Paul Shepheard, architetto e docente londinese, ci sono
aneddoti di gente le cui vite hanno raggiunto un tale punto critico che intorno
gli sono comparso edifici.
L’autore del libro, non
risponde a questa domanda e neppure a quella suggerita dal titolo What is
architecture? che prende in prestito quello di una lezione del 1935 di Gertrude
Stein (What is literature?).
E’ la letteratura che si
cimenta con le definizioni, non l’architettura: Shepheard non ha alcun
interesse ad arrivare a una definizione per suscitare un consenso. Cerca,
invece di inquadrare le possibilità insite nella disciplina.
In un momento in cui ci
piace pensare che tutto è architettura, dalla filosofia alla scienza, dall’arte
alla teoria, Shepheard disegna dei confini.
E lo fa ponendo una prima
differenza tra ciò che è inerente alla disciplina e gli altri aspetti che, pur
non essendo architettura, vi aderiscono così perfettamente da aiutarci a capire
che cosa essa sia.
Parte così, un racconto
romanzesco organizzato intorno a una serie di favole: Donatello e Brunelleschi,
Coleridge e Schiller, un gruppo di ragazzi che nel 1932 visitano il Padiglione
Svizzero di Le Corbusier. E ancora: 5 architetti intenti, ciascuno a modo loro,
a trafficare con congegni meccanici, elaborare ricostruzioni dell’antica Roma,
disseminare caos sulla carta, parlare del rapporto forma e funzione, costruire
testi. C‘è perfino Cenerentola che va al ballo!
Questi sono solo alcuni dei
protagonisti di cui Shepheard si serve per alcune spedizioni in cerca
dell’architettura.
Le azioni dei personaggi,
inventati o no, sono gli strumenti che l’autore usa per affrontare la
difficoltà di scrivere di architettura. Racconta storie di uomini, fatti della
vita reale, perché solo inserito in uno scenario riesce a capire qualcosa
dell’architettura.
Alle correnti del pensiero
sostituisce le azioni. Ma a tutti chiede di usare un linguaggio concreto. Lo
chiede alla critica.
Tutta l’ambiguità che oggi
viene incoraggiata nella progettazione architettonica è frutto di una
contaminazione letteraria. L’architettura ha bisogno di descrizioni legate alla
terra, così come ogni opera deve essere ancorata al paesaggio, vale a dire che
occorre una strategia del paesaggio perché le teorie basate sulle intenzioni
sono letterarie.
La critica dura e chiara
alla fine del libro è proprio questa: la letteratura arte del contenuto ha
trionfato sull’architettura arte della forma, lo spazio in quanto certezza è
temporaneamente scomparso.
E’ a questo punto che ci
accorgiamo che nulla di ciò che Shepheard ha scritto è stato organizzato in
modo da tracciare un percorso verso cui indirizzare l’architettura.
Quasi alla fine del libro
sostiene che quello che siamo ora in grado di teorizzare come architettura è
intenzionale e accidentale allo stesso tempo. Che l’architettura è l’insieme
dei buoni e cattivi edifici (non soltanto le opere eccellenti, ma anche i
rapporti di distanza tra le cose, le discariche dei rifiuti), dei paesaggi che
ci sforziamo di ottenere e di quelli che sembrano il risultato di qualche altra
attività, delle macchine da guerra e di quelle di pace.
Il merito del libro, oltre a
quello di spezzare l’intollerabile ampollosità, confusione e pretenziosità
dello scrivere di architettura oggi, è
quello di riconsegnare una sorprendente dichiarazione del De Architectura di
Vitruvio (di cui spesso si ricorda solo il passo che contiene la celebre
triade: ratio firmitatis, ratio utilitatis, ratio firmitatis). Shepheard si
sofferma invece sul punto del trattato in cui Vitruvio sostiene che
dell’architettura fanno parte gli edifici, le macchine, e gli orologi (per
orologi si devono intendere quelli solari nei quali il movimento dell’ombra
mostra sul disco il movimento della terra nello spazio, la rotazione intorno al
sole). In questo senso possiamo parlare di: edifici, macchine, paesaggio.
Se allora l’architettura non
è soltanto edifici, può non essere qualunque cosa ma non è soltanto edifici,
per scoprire cos’altro è, Shepeard ci chiede di essere selettivi, di non
cercare di leggere tutto ma di cominciare dal primo libro, dal trattato in
dieci libri di Vitruvio.
Scopriremo allora il paesaggio
come la strategia dell’azione architettonica, gli edifici come le tattiche e le
macchine come operazioni.
Il libro è finito davvero:
ciò che restano sono due assunzioni di responsabilità.
La prima responsabilità del
cittadino contemporaneo, preso nel vortice delle discussioni, è di essere
selettivo. La seconda responsabilità è quella di alzarsi in piedi e prendere
una posizione chiara.
Ma il libro ci ha anche
spiegato i rischi di consegnare l’architettura ad un terreno ambiguo:
ricordiamolo, dal momento che è strettamente ancorata alla terra, ha bisogno di
una strategia del paesaggio.
Glass Villa, Shizuoka, Giappone 1995
Dalla terra vi chiedo di
fare un salto sull’acqua: l’opera Glass Villa dell’architetto giapponese Kengo
Kuma mi sembra possa chiarirci cosa significa una strategia del paesaggio.
Kuma, partendo dalla
posizione di privilegio che la vista ha nella nostra cultura (e questo, come
spiega Derrick de Kerckhove, dipende dal brainframe creato dalla
alfabetizzazione, che ha influenzato il modo in cui organizziamo i pensieri e
percepiamo lo spazio, portando il nostro cervello a classificare come facciamo
con l’alfabeto e con l’uso della prospettiva che sequenzializza lo spazio e il
tempo) costruisce una casa su una rupe di fronte all’oceano, che non ha punti
dai quali si ha una visione esterna dell’edificio: l’architetto prendendo in
considerazione solo le vedute dall’interno e quelle a livello del terreno,
cancella l’oggetto e, al suo posto, rende manifesto un luogo. Kuma suggerisce
una nuova integrazione sensoriale che respinge qualunque descrizione. Introduce
l’uso di una metodologia non visiva che consiste nelle pratiche del
“giardinaggio”, differente dal landscaping (una metodologia nella quale il
progettista sta fuori dal paesaggio, lo osserva e manipola la scena). Al
contrario il giardiniere è sempre dentro il giardino. Non ha punti di vista
fuori dal giardino o in qualche posizione privilegiata. L’esistenza del
giardiniere è sinonimo dell’esistenza del giardino ed egli ne è, in tal senso,
prigioniero. Non c’è distanza tra lui e il giardino. Il soggetto e l’oggetto
sono legati e continui. E’ il concetto del digital gardening, in cui digital
sta ad indicare la possibilità data dalle tecnologie elettroniche, che hanno
reso continuo un mondo discontinuo, di espandere l’approccio rappresentato dal
giardinaggio e di eliminare quella presenza ipertrofizzata chiamata
architettura.
Ogni nuova direzione che si
sviluppi in architettura deve essere rafforzata da una strategia del paesaggio,
solo così si può evitare di spiegare l’architettura come se possedesse lo
stesso senso ambiguo della forma di un testo letterario.
What is architecture? è
allora una domanda mal posta, perché pone un problema di definizioni.
Alla lettura del testo di
Shepeard suggerisco di affiancare le originali e serissime vignette di Diego
Lama che mostrano che cosa succede quando è l’architettura a cimentarsi con le
definizioni. E non la letteratura.
Diego
Lama, Case di china.
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